Memoria di Roberto Sanesi
Sui “Dieci poemetti”, editi nel 2009 da “La vita felice”

2012: dodici anni sono trascorsi da quando Roberto Sanesi ci ha lasciati.
Vogliamo ricordarlo riprendendo una lettura della raccolta in parte postuma “Dieci poemetti”.

Più di quarant’anni fa ebbi la fortuna di conoscere Roberto Sanesi in occasione di una sua mostra di ‘opere pittoriche’ – così le chiamo con inesattezza ma per comodità, poiché l’autore diceva di “scrivere e non di dipingere”. Era il tempo ancora fertile della poesia visiva – ma anche questa etichetta non si adattava alla sua ricerca. Comunque di poesia visiva io stesso mi interessavo e subito fui affascinato da quelle sue delicatissime eppur fortemente espressive scritture acquerellate. Nacque un’amicizia, tuttavia non solo - diciamo così - professionale. Roberto, per esempio, si interessò fra l’altro con generosità di giudizio, a certe mie brevi prove di traduzione: che io chiamavo “Ricreazioni”: a lui piacquero le mie ricerche speculari, i miei tradimenti, paradossalmente per altro rispettosi di una fedeltà climatica materico-testuale, verso testi classici di lingua inglese, francese, tedesca… E ne scrisse

Ma ben presto, nella frequentazione, feci alcune scoperte rivelatrici: sull’artista, sul poeta, sul traduttore, sul critico, sull’esperto di teatro… e sull’uomo. Adriano Spatola allora, fascinosamente, teorizzava dell’art totale, della poesia totale… Ma capii infine che Sanesi era in sé la poesia totale, perché era un uomo totale.

Con Gilberto Finzi e Giuliano Gramigna nel 1983 fondammo la rivista “Testuale” (titolo esplicito in relazione al suo progetto) e Sanesi fu tra i primi a collaborare apprezzando l’iniziativa e ben presto entrando attivamente nella consulenza redazionale. Testuale significava e significa appunto cercare la poesia nel testo, nella materia del testo, sfuggendo per quanto possibile al facile giornalistico biografismo e al generico psicologismo.

L’idea andava benissimo per Roberto che, anche per sé, per il suo lavoro, non intendeva mai mettere in gioco la sua quotidiana, personale, prammatica presenza.

Ma Sanesi, ripeto, e lo scopersi piano piano nel frequentarlo, era appunto un uomo totale e la sua creatività multiforme, suo malgrado, non sfuggiva al suo essere insieme personalmente realisticamente quotidiano e fantasiosamente metafisico.

Questi Dieci poemetti mi confermano – se ce ne fosse bisogno – che quest’uomo più di ogni altro scrittore non può mai essere separato dai suoi testi. E i suoi testi vanno al di là della poesia per dichiarare anche esplicitamente, oltre ogni poetica ambiguità (senza per altro trascurarne il valore), la sua visione del mondo (e il suo equilibrato tormento), sorretta sempre da una rigorosa passionale ricerca critica. E’ la sua vita ad essere testuale.

Vincenzo Guarracino nella sua puntualissima, esaustiva, raffinata, colta introduzione a questi Dieci poemetti esalta questa idea che possiamo farci dell’uomo-poeta:

« … l’esperimento di un progressivo appressamento a un mobile orizzonte di senso, a una terra promessa difficilmente raggiungibile… destinata a restare miraggio… una scrittura interminabile, perseguita con determinata alacrità, attenta e al tempo stesso distratta da una foresta di insorgenze fantastiche e culturali, dall’accumulo di parole e immagini… a testimonianza del complesso, addirittura “feroce equilibrio” (giusto il titolo della raccolta poetica d’esordio del ’56), in cui l’io si trova a vivere e a dibattersi, fino ad essere travolto, nel gran teatro dell’esistenza».

Quell’io si faceva sì travolgere, ma rimaneva pur sempre presente, come pietra di paragone, e lo si apprezzava oltre la sua poesia, nella sua pacata acquisizione delle cose, dei sentimenti umani, delle generose amicizie.

In questi Dieci poemetti sento viva più che mai questa unione, questa comunione fra l’uomo e la parola. Fra le passioni, e il calmo flusso della materia di parola: che tutto dice, per il qui e per l’altrove, fra luce e ombra. Non si dimentichi il saggio La trasparenza dell’ombra. Uno dei temi fondamentali della vita poetica (e di proposito dico vita poetica) di Sanesi: tanto che – da lui generosamente approvato – mi capitò di dire e di scrivere di una linea fra metafisica e neobarocca influenzata dalle esperienze traduttive dei Metafisici Inglesi, di Marlowe e di Blake, e Milton… e Shakespeare… E, per sé, dal coinvolgimento nella forma fluens del verbo. Si trattava, e si tratta, di una genetica scritturale (c’è di mezzo anche la visual poetry) di un barocco leggero (sorrideva ammiccante e sorpreso dall’aggettivo) che caratterizzava la sua opera complessiva. Un Verbo demiurgico, senza protervia. Un Dio dall’umiltà sapiente. Che era il Dio anche della sua sempre disponibile presenza umana.

Questo libro di cui stiamo parlando, Dieci poemetti, testimonia in ogni pagina, con ogni testo di questa realtà poetica e, appunto, umana. Non possiamo qui percorrerlo ampiamente, è ovvio, e per una visione più documentata e complessiva si deve (oltre ovviamente a leggerlo per conto nostro) riferirsi alla presentazione e alle note (queste alle pagg. 203-217) di Vincenzo Guarracino. Va detto comunque che l’intera raccolta si afferma, per le ragioni suddette, anche come dichiarazione di poetica.

Possiamo accontentarci di un assaggio – e la poesia di Sanesi grazie alla sua totalizzante e fluente scrittura, anche in un solo testo può affermare l’universo. Devo limitarmi, a puro titolo d’esempio, a qualche passo della stanza XIII di Rapporto informativo (del 1962-1964). Si legga alle pagg.54-57:

1. Nel costruire immagini, nel viverle e trasporle / come fossero gli unici soggetti / della musica acerba e dissonante / di un multiforme orizzonte di anticipazioni / noi tutti / alla ricerca effettiva di una realtà del mondo, / fummo convinti fosse questa l’unica / via per fondere oggetti e trascendenza…… Si dà come premessa l’umana antica domanda posta guardando le cose e i fatti, per altro non limitandosi alle semplici prese d’atto dello sguardo, ai turbamenti delle dissonanze e delle facili profezie, ma con la volontà, che il tono generale sembra considerare illusoria, di trovare una soluzione nel fondere oggetti e trascendenza.

Basterebbero questi otto versi per cogliere le violenze delle passionali, poetiche, aspirazioni e infine del dubbio nella poesia di Sanesi.. Passione e scetticismo. Basterebbero questi otto versi per ritrarre l’umanità, ancor prima della poeticità, della disposizione di Sanesi di fronte al mondo e alla insistita ricerca di realtà. E forse di una verità trascendente. Quindi di una verità poetica. La proposta, la ricerca, il dubitare di una antica convinzione riprende infine questioni ontologiche, ma l’eloquio non è esagitato o profetico: si tratta di un passo – secondo la misura a mio avviso abituale del poeta - che procede non per estetizzanti strutture verbali, metriche o stilistiche, bensì penetra il senso illusorio della vita rivolgendosi ad un invisibile amico interlocutore (tale qual è l’Uomo) adottando, con estrema modestia, una discorsività ritmata non da rime, appunto, bensì da penetranti silenzi. Questo, per quanto lo conobbi, era l’uomo Sanesi che sapeva, silenziosamente, rivestire il dramma di suadenti misure. Forse come certo suo Shakespeare, quello dei Sonetti che magistralmente tradusse.

2. …Correndo sulle rive dell’Atlantico, attenti / alle maree che giocano sull’ombra / … un movimento circolare attorno / al nostro credere alla vita e al mondo… Se la poesia in generale si sazia di memorie e di assenze (talvolta manieristiche e stucchevoli), questa di Roberto si lascia pacatamente trascinare dal movimento circolare della vita, che non è un gorgo nel quale sprofondare (secondo certo esagitato simbolismo), bensì una musica sebbene acerba e dissonante, udibile da un multiforme orizzonte di anticipazioni…Il silenzio si fa ancora attesa, ma non senza rammarico:

3. … e questi anni / sarebbero stati vissuti e lo furono un tempo, / solo se in più graziosa e accorta / disposizione di voci avremmo saputo poi / immaginarli e viverli di nuovo. Inizia qui la magmatica sequenza degli incontri, delle sensazioni antiche, l’accumulo dei nomi, delle esperienze piuttosto intime che plateali, e tuttavia il discorso procede ora per sussulti, per quieti sussulti, tanto quieti nelle amorevoli soste della fluente parola ancora trascinata dalle immagini acerbe e dai desideri di trascendenza:

4. … su questi amici spunta l’agrifoglio / della memoria…in questa ansiosa / apparente retorica // e forse solo. ripeterli, ripeterli, ripeterli… Quasi che la ripetizione, il richiamo reiterato fosse infine propriamente la ritmicità, non tanto ossessiva quanto innamorata e appassionata, della poesia della memoria presente, oltre - lo spera - questa ansiosa apparente retorica. Alla ricerca connaturata nel poeta dell’antiretorica dell’eloquio più intimo.

5. …Ma questo è un racconto di dure migrazioni…… mentre l’alba infuria. Ecco forse quel barocco leggero di cui dicevo nella problematica e tormentata spirale di una genetica vitale eppur silente, fino al giorno della morte. Una morte senza tragedia, vissuta, proprio grazie all’accumulo ossessionante ma naturale, naturalmente comprensibile e infine accettabile, l’accumulo che nella con-fusione (con-fusione con il trattino), nell’unità, nella comunione, mai si arresta pur nel mistero del silenzio. In cui si nasconde l’indecifrabilità della vita:

6…. Nel tutto, / molti di noi rispondono vivendo / … / meglio rispondono al silenzio in cui / ciò che non è indicato si nasconde, e ancora / meglio rispondono alla stessa morte.

Ma questa distaccata visione dei territori sommersi dal flusso della vita e della parola non sarà (come non fu) una conclusione, la conclusione. Se gli ultimi versi di questa raccolta dalla quale stiamo leggendo dicono …un pettiruggine all’alba ha corroso la luce, / deviando… /// … altre coordinate si impongono…(stanza 28, pag.163, di Sull’instabilità del soggetto, del 1980).

g.f.